Pensando allo screening dopo il coronavirus

Dr.ssa Paola Mantellini, Ispro - Centro di riferimento regionale per la prevenzione oncologica della Regione Toscana
 

Indipendentemente dall’analisi su pro e contro dello screening oncologico ai tempi del Coronavirus con cui, spero, gli epidemiologi potranno illuminarci e confortarci è, a mio avviso, necessario cominciare a fare il punto della situazione.  

È innegabile che l’emergenza Covid-19 ci ha trovati forse non del tutto impreparati, ma spiazzati certamente. Ci si è trovati a dover garantire questo livello essenziale di assistenza nel rispetto delle ordinanze ministeriali e regionali che si sono, per forza di cose, susseguite a ritmo frenetico. E il quadro che ne è emerso non è stato certo dei più confortanti: la maggior parte dei servizi che rendono possibile l’erogazione del programma non erano strutturalmente e funzionalmente in grado di garantire le distanze richieste (punti prelievo e sale di attesa sovra-affollate per la concomitanza di attività di screening e di attività ambulatoriali di vario genere), i dispositivi di protezione individuale razionati e, in alcuni casi, erano del tutto assenti (nel caso dei tecnici sanitari di radiologia si è, ad esempio, posto il problema della dotazione di occhiali protettivi), richieste sempre più pressanti di riconversione del personale in servizi di supporto al Coronavirus e poi, ancora, colleghi che hanno cominciato ad ammalarsi. A prescindere dalla volontà del programma organizzato, sono spesso “saltati” alcuni anelli della catena. In molte realtà il ruolo del volontariato che ha spesso vicariato l’assenza di personale da dedicare allo screening, considerato spesso sacrificabile rispetto ad altre esigenze, è venuto immediatamente meno. Ma non solo, hanno cominciato a perdersi servizi che si pensavano essenziali perché assicurati da “fornitori robusti” al punto tale che in questi giorni ci si trova a non saper come fare a gestire la consegna delle risposte inviate per posta. Questi ovviamente sono solo esempi, ciascuno potrebbe arricchire l’elenco con molti altri.

E qui ritorno sull’impreparazione che, in molte realtà, è stata mitigata dalla capacità di trovare e adottare soluzioni che si era cercato, spesso invano, di acquisire quando l’emergenza non c’era ancora. Improvvisamente e sorprendentemente questa situazione ci ha dimostrato che, in tutti i settori, certe cose si possono fare, basta volerlo. Nella mia realtà, ad esempio, in cui si era stati titubanti nell’invio degli SMS all’utenza per questioni di privacy, il dubbio si è sciolto come neve al sole ed è stato possibile raggiungere l’utenza già invitata con un messaggio in cui sono state date le indicazioni per contattarci e riprendere l’appuntamento. Si è valutato prioritario mantenere un filo diretto con i beneficiari del nostro intervento. Ci voleva una epidemia per capirlo?

A prescindere da quello che si sta facendo adesso, trovo utile e prioritario affrontare la questione “come ricominciare”. Una recente pubblicazione degli epidemiologi dell’Imperial College afferma che nei prossimi mesi ci attende una “fase epidemica ciclica” che ci costringe, molto probabilmente, a rivedere le nostre modalità di lavoro a stretto giro. In realtà credo sia giusto domandarsi se davvero non siamo entrati in una nuova era e se dobbiamo imparare a disegnare percorsi che tengano conto che “evenienze” come quella che stiamo vivendo ora si possano ripresentare periodicamente. Sono sempre stata una convinta sostenitrice delle logiche di efficientamento del servizio sanitario e nel corso delle numerose site visit che abbiamo condotto si è cercato di dare indicazioni in questo senso. Quanto tempo ci vuole per fare una mammografia di qualità? Quanti tecnici di laboratorio sono necessari per gestire 50.000 test HPV l’anno? Queste domande apparentemente semplici rispondono a logiche di efficientamento che per loro natura sono strettamente correlate alla velocità dello screening e ai parametri di overbooking, cioè la maggiorazione del numero di inviti in base alle medie di adesione. Ma se dobbiamo imparare a ragionare secondo principi di precauzione potremmo ancora permetterci gli standard che abbiamo fissato?  Probabilmente saremo chiamati, e rapidamente, a rivedere la disposizione delle nostre strutture, l’ergonomia e i flussi di lavoro. Se vorremo garantire lo screening a tutti dovremo avere più spazi, più turni di lavoro, più personale? Non so se questa è la domanda corretta, ma credo che nell’immediato futuro ci attenda una rivoluzione che noi possiamo vivere sul piano tecnico, ma che certamente ha, dal punto di vista delle strategie di politica sanitaria, un significato niente affatto trascurabile.

 

25.03.2020